giovedì 31 dicembre 2020

Pane e vino

E’ tradizionale parlare dell’imitazione di Cristo nella cultura cristiana. Una delle immagini non molto usate è quella di farsi pane per gli altri come Gesù ha fatto per noi. Pane e anche vino. 

In questi giorni sto vivendo una particolare accoglienza nei confronti di Gesù, ben sapendo che pur essendo piccolo e indifeso, è lui che conduce il gioco. E allora come la mettiamo questo farsi pane per gli altri?

Credo che l’importante sia farsi aiutare meglio da Lui. Intanto farsi pane significa voler bene. Il pane, quello buono, non quello sofisticato che dura solo un giorno ma quello genuino, un po’ paesano: sembra comprensivo e disponibile. Sa aspettare il momento in cui io, che mangio più del necessario, torno ad avere appetito e lui è lì che mi aspetta. Ricordo che da ragazzi in Calabria giocavamo con gli amici e veniva un momento nel pomeriggio in cui il ragazzo che ci ospitava apriva la dispensa e ci offriva pane. Pane e basta. Ho nostalgia di quel pane e di quella fame. Quindi prima caratteristica: essere genuino. Non farmi trascinare in complicazioni sofisticate. Voler bene e basta. Adattarmi allo stomaco degli altri. Essere allegro, interessato e partecipe. Essere commestibile.

Poi c’è anche il vino. Essere vino potrebbe dire essere spiritoso, non nel senso di chi vuol esserlo a tutti i costi, ma di chi si lascia andare così com’è con la vitalità che Dio mi concede. La persona simpatica è quella in cui si può leggere dentro, sincera. Non a caso si dice che il vino buono è sincero. Il vino che Gesù fa bere a Cana, trasformandolo miracolosamente dall’acqua, viene lodato per la sua qualità. Un vino senza sofisticazioni e spiritoso, alcolico al punto giusto. Soprattutto se si vuol trasmettere lo spirito di Dio non si può essere pesanti e musoni. I santi quasi sempre erano divertenti o almeno molto interessanti.

Potrei continuare ma mi fermo qui perché pane e vino non possono essere presi in troppa quantità.


 

martedì 15 dicembre 2020

 La lettera apostolica di Papa Francesco su San Giuseppe offre tanti spunti di riflessione. Uno è quasi divertente. Il Papa sostiene che, quando si ha fiducia nella Provvidenza come San Giuseppe, si diventa creativi e ricorda gli amici di un paralitico che, come raccontano i vangeli, hanno l’iniziativa di issare il paralitico sul tetto di una casa, sfondare il tetto (che presumibilmente era almeno in parte di paglia) e  calarlo giù davanti a Gesù. Immagino la scena. La folla che si stringe attorno a Gesù a un certo punto comincia a guardar su, anche perché qualcosa dal soffitto sarà pure caduta e appare una barella traballante col poveraccio sopra (spero che lo avessero legato) che viene calato lentamente ai piedi di Gesù. Roba da fiato sospeso. La scena non finisce con un miracolo e basta. Prima Gesù dice al paralitico che gli sono perdonati i peccati, suscitando lo sdegno di alcuni dei presenti, al che Gesù afferma: “ Che cosa è più facile: dire «Ti sono perdonati i peccati», oppure dire «Àlzati, prendi la tua barella e cammina»? Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te - disse al paralitico -: àlzati, prendi la tua barella e va' a casa tua». Quello si alzò e subito presa la sua barella, sotto gli occhi di tutti se ne andò”. Il Papa menziona l’episodio per sottolineare la fiducia nella Provvidenza degli amici del paralitico: la stessa fiducia che consente a Giuseppe di seguire le indicazioni dell’angelo e il proprio buon senso. Il cristiano che ha fede vive di fiducia in Dio.

  Un altro spunto confortante è che il comportamento di Giuseppe non si basa su una spiegazione ma su un’accoglienza. Giuseppe non chiede quale sia la logica delle richieste del Signore: le accetta e basta. Ci insegna così a “fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza” perché Dio può far germogliare fiori anche dalle rocce. Come l’angelo dice a Giuseppe di non temere così noi possiamo raddrizzare la nostra vita anche se il nostro cuore ci rimprovera, perché, come scrive San Giovanni, Dio è più grande del nostro cuore. Quest’idea è confortante. Può capitare che mi formi una cattiva opinione di me stesso attribuendo a Dio la stessa mia rigidezza e pusillanimità, invece Dio mi accetta così come sono, con le mie debolezze. L’importante è che il cuore si apra all’aiuto di Dio. E’ uno scherzo demoniaco farmi credere che Dio non possa accettarmi così come sono, mentre Dio ha cuore di padre e di madre. Non è poco rispettoso pensare col detto napoletano che “ogni scarrafone è bello a’ mamma soia”. Il piccolo scarafaggio è bello per la sua mamma e così posso essere  accetto a Dio. Come Dante fa dire a Manfredi nel canto terzo del Purgatorio: “la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei”.

  Ci sono altri spunti nella lettera del Papa. Non resta che meditarla.

 

 

giovedì 3 dicembre 2020


 Questo Natale che viene è diverso dagli altri. E’ il Natale del dolore e della paura. Il dolore per i cari defunti a causa del virus e la paura che ci impedisce di stare insieme in grandi e festose adunate. Ciò non ostante il Natale getta una luce in queste tenebre. Dio viene da noi e ci porta ogni tipo di speranza: dalla guarigione delle malattie, alla felice vita eterna, assieme alla consolazione del volerci bene fra di noi, come testimoniano i doni che ci portiamo. Ripropongo delle considerazioni che ho scritto l’anno scorso perché sono utili a me e anche spero al lettore:

 la consuetudine di preparare il presepe è estesa in tutto il mondo ma trova a Napoli un suo speciale radicamento. Edoardo De Filippo ha scritto una tenera commedia che tanti conoscono, Natale in casa Cupiello, in cui si confrontano due mondi. Quello dell’anziano Lucariello fatto di tradizioni, di unione familiare pur in mezzo alle immancabili asprezze derivate dalla convivenza (il figlio viziato e dispettoso che dice: “nun me piace ‘o presepe”) e, in contrapposizione, il mondo moderno in cui si agitano nuove esigenze di felicità egoistiche che generano tradimenti e fratture familiari. Lucariello (pur un mezzo a piccoli contrasti con la moglie che non sa fare il caffè ma resta la regina della frittata di cipolle) è intento a preparare con impegno il suo presepe mentre intorno si svolge una tragedia di cui non si rende conto: la figlia vuole mandare all’aria il matrimonio e vuol vivere col suo amante, generando tensioni terribili. Quando finalmente Lucariello si accorge del dramma intorno a lui, ne muore. Lo consola il figlio scapestrato che finalmente ammette: “me piace ‘o presepe”.

Vorrei ribadire che anche a “me piace ‘o presepe”.

 Mi piace il Natale e non lo trovo affatto una festa ormai paganizzata: intanto continua a chiamarsi Natale il che vuol dire che qualcuno è nato. Che poi questo qualcuno sia Dio in persona sta alla nostra fede crederlo: una fede sempre mancante, anche la mia, per cui non mi posso lamentare; posso invece pregare.

Quando si tentò di scrivere la costituzione europea ci fu chi si rifiutò di fare riferimento alle radici cristiane d’Europa. Andreotti senza scomporsi osservò che, comunque, la data bisognava metterla, e la data segna gli anni che ci separano dal Natale di Gesù…

 Tante luminarie rappresentano la continuità con la luce che “avvolse i pastori” (Luca 2,9) e con la luce della stella che guidò i Re Magi. Perciò quando vedo le strade illuminate con decorazioni particolari o il palazzo della Rinascente con una cascata di luci, penso che quelle luci sono la continuazione delle luci che attraggono i pastori e guidano i Re Magi: non stanno lì a caso.

 Tutti, pastori e Magi, portano regali e noi ci scambiamo doni per questo. La consuetudine di farsi i regali viene da lì: ce li scambiamo fra di noi ma in realtà sono un omaggio all’amore del Bambino. Scambiarsi doni è il massimo della festa, vuol dire che ritorniamo alla nostra vocazione originaria dell’amore.

I Magi sono costanti e determinati finché non raggiungono la meta, i pastori vanno “senz’indugio” come dice San Luca (2,9) cioè di fretta, così com’era andata Maria a trovare la cugina Elisabetta. Questa determinazione e questa fretta m’insegnano cos’è che conta davvero.

Ho vissuto dieci begli anni a Milano e ricordo che il verbo più usato era ed è: “scappare”. Devo “scappare”. Ma dove scappo? E da cosa scappo? Ecco: i pastori, i Magi e Maria mi fanno capire a cosa tende la fretta vera: cosa vale davvero la pena. Troppe volte sento il bisogno di correre o distrarmi o divertirmi: tutti verbi che alludono al distacco da ciò che ho intorno. Il Natale m’insegna a vedere la profondità delle cose, il significato a cui i fatti e le situazioni alludono. Il Bambino non è solo un bambino, i doni non sono oggetti: sono un riflesso del mio cuore; le luci sono quelle che devono illuminare la mia mente distratta.

Come osserva il Papa, anche la rappresentazione di scene di vita ordinaria nel presepe ricorda il divino nascosto nella mia vita di ogni giorno di cui mi devo accorgere. Soprattutto i presepi napoletani sono ricchi di osterie, mercanzie, scene di vita campagnola, uomini che giocano a carte, massaie dentro le case che sbrigano faccende, luci che fanno intravedere l’interno accuratissimo degli appartamenti, negozi sovrabbondanti di generi alimentari, ponticelli, cascate. Non sono un’evasione di ciò che avviene nella santa grotta ma indicano come la vita di tutti i giorni è contemporanea al divino, non gli è estranea. 

A loro volta i personaggi che circondano la Grotta sono una lezione per me. Non pensano a se stessi ma emettono radiazioni d’amore cominciando da Maria e Giuseppe. Persino il personaggio classico di Benino, il pastore che dorme, mi ricorda la mia incapacità di accorgermi della grandezza dei disegni di Dio e mi sollecita a svegliarmi.

Ben venga il Natale di un Dio deposto in una mangiatoia che chiede solo la mia attenzione.

Mi piace il Natale e “me piace ‘o presepe”.

Giorgio Del Lungo ha disegnato il bue e l’asinello che cantano “Silent Night”