venerdì 26 settembre 2014

L'uomo non è un animale sentimentale




Aristotele diceva che l’uomo è un animale razionale, oggi la cultura dominante ritiene l’uomo un animale sentimentale. Solo così si spiega come mai piangiamo per la morte dell’orsa e tiriamo avanti alla notizia di tre missionarie italiane sgozzate in Africa. Erano tre donne che avevano offerto la loro vita a Dio e agli altri, rinunciando agli amori, agli affetti personali e al loro paese, e permettiamo che solo Dio se ne ricordi e le accolga: sui giornali non un approfondimento, non una storia… Non c’è da scandalizzarsi, c’è da attrezzarsi. La cultura dei media ci vuol convincere che l’uomo è un animale fra gli altri, che gli animali hanno i nostri stessi diritti e, soprattutto, che l’uomo è solo su questa terra e si costruisce da sé. Un quadro che lascia come punto irrisolto soltanto la morte: un accidente che capita inaspettatamente a questo uomo-dio. Io, assieme a molti altri migliori di me, ho il compito di far capire che l’uomo è una creatura di Dio, reso figlio di Dio da Gesù: un essere che pensa e ama, anche gli orsi ma nell’ordine voluto da Dio. Oggi come cristiano devo andare controcorrente, devo studiare non solo il catechismo ma le vite dei santi, veri amici di Dio. Santa Caterina scriveva “nel prezioso sangue di Gesù” e concludeva le sue lettere con “Gesù dolce, Gesù amore”. Cristo aveva scambiato il suo cuore con il Suo. Sta a me, ultimo della fila, addentrarmi nel mistero dell’amore di Dio e comunicare agli altri, con tutti i media, che è vera questa bella notizia.



giovedì 25 settembre 2014

Il primo ingegnere santo.

 Su Tempi di questa settimana ho scritto questo ricordo di don Alvaro:



A qualcuno sarà capitato di leggere biografie sul proprio padre. Penso che avrà vissuto la sensazione che io provo ora: quante notizie belle e giuste! Ma per me, mio padre è mio padre. Perciò sono lieto che ci siano tanti libri su don Alvaro del Portillo, ma a me piace ricordarlo come l’ho conosciuto, prima da fratello maggiore e poi da padre.
Nei nostri incontri con San Josemaría don Alvaro (accento sulla prima “a”, alla spagnola)  era sempre presente.  Soprattutto nelle prime riunioni col fondatore dell’Opus Dei eravamo emozionati perché conoscevamo finalmente l’autore del libro di pensieri “Cammino”, colui che era chiamato con affetto “Padre” da chi ci aveva preceduto: San Josemaría metteva subito tutti a proprio agio con il suo buonumore, anche se la sua fede, così tangibile e fondante, era commovente. Quando il Padre entrava nella stanza lo seguiva un sacerdote sorridente che si metteva nel fondo della sala, dietro a tutti. Se il Padre doveva ricordare qualcosa: una frase o un nome, diceva con voce più alta: “Alvaro!” e la risposta arrivava immediata. Mai c’era un’esitazione o un errore. Così cominciammo ad affezionarci a questa figura dal sorriso buono che era come l’ombra del Padre. Un’ombra molto efficace perché gran parte del peso della costruzione dell’edificio giuridico e anche dell’edificio materiale della casa centrale della Prelatura cadevano sulle sue spalle. Una volta don Alvaro si ammalò e uno di noi disse a San Josemaría: “Padre è preoccupato?” e il Padre rispose: “Figlio mio forse non ti rendi conto di quanto significa don Alvaro per tutta l’Opera e per tutti voi…”.
Il suo carattere mite metteva a suo agio chiunque. San Josemaría travolgeva l’interlocutore in un’onda di simpatia e di buonumore, e, senza volerlo, metteva in imbarazzo coloro che non erano animati da rettitudine d’intenzione che rimanevano spiazzati davanti ad un uomo di Dio che ragionava in maniera soprannaturale. Viceversa gli uomini di fede e di preghiera s’innamoravano di lui. Fra i cardinali entusiasti ricordo, ad esempio, Angelo Dell’Acqua e Pietro Palazzini che erano apertamente convinti della santità di San Josemaría, più di noi. Don Alvaro, da parte sua, riusciva a non mettere nessuno in difficoltà, non spaventava nessuno: cosa singolare perché la vita mi ha insegnato che la santità spaventa: non si spiega altrimenti la fiera opposizione che tutti i santi hanno trovato nel loro percorso. Si potrebbe dire che San Josemaría ha portato il suo messaggio impetuoso sotto gli occhi di tutti. Don Alvaro, dopo la morte del Santo, riuscì a condurre in porto l’itinerario giuridico dell’Opera e a realizzare imprese che il Padre aveva soltanto progettato. In realtà è impossibile distinguere l’operato dei due perché la loro azione era così congiunta che era difficile dire cosa faceva l’uno e cosa l’altro. Senza dubbio il Padre aveva ricevuto il carisma fondazionale ma don Alvaro (che aveva 12 anni meno di lui) gli stette a fianco in totale unità d’intenzioni e d’azione.
Quando, nel 1975 San Josemaría morì, malgrado il nostro dolore, l’Opera non subì nessuno scossone anzi, ne sono testimone in Italia, subì un’accelerazione morbida come quella dei treni ad alta velocità. Ci fu un fiorire di vocazioni all’Opera come se ci sentissimo tutti più responsabili e il primo di noi era don Alvaro, che da fratello maggiore passò ad essere il Padre. Lui stesso raccontò, contento e sorridente, che una collaboratrice domestica gli aveva scritto dicendo: “Non è morto il Padre, è morto don Alvaro, perché per noi c’è sempre il Padre”.
Non è da credere che la sua semplicità fosse semplicioneria. Aveva brillantemente ottenuto la laurea in ingegneria trasporti, che era molto impegnativa in Spagna, mentre lavorava intensamente nelle attività dell’Opera. Dopo la laurea lavorò per qualche tempo come ingegnere. Il Padre aveva voluto che si laureasse anche in lettere e che percorresse per bene l’itinerario degli studi ecclesiastici prima di diventare sacerdote nel 1944 con altri due fedeli dell’Opera. Erano i primi tre sacerdoti dell’Opus Dei. Il Padre si affrettò a confessarsi con lui e a chiedergli in ginocchio la benedizione.
Nel 1943, ancora laico, in piena guerra, era venuto a Roma in aereo (un viaggio avventuroso) per illustrare a Pio XII l’Opus Dei. Conobbe allora mons. Giambattista Montini che, apprezzando il messaggio di chiamata universale alla santità dell’Opus Dei, pronunciò la famosa frase: “Siete venuti con un secolo d’anticipo”. Una frase che servì a don Alvaro per indurre il Fondatore a venire a Roma nel 1946 e stabilirsi definitivamente.
La sua unità e dedizione a San Josemaría era totale. In uno degli incontri pubblici del Fondatore una ragazza intervenne dicendo: “Una mia amica mi ha fatto osservare con quanto affetto seguono il Padre coloro che stanno sempre con lui. Chissà quante volte hanno sentito le stesse cose eppure sono attentissimi a tutto ciò che dice”. San Josemaría non lo dette a vedere, ma si commosse, e rispose con impeto: “Ebbene sì ci vogliamo bene…”
Fin dai primi tempi romani don Alvaro ebbe incarichi nei vari dicasteri della curia pontificia, dove era stimatissimo. Partecipò attivamente ai lavori preparatori del Concilio, nel dopoconcilio e negli anni successvi, fino al 1975 quando fu eletto all’unanimità successore di San Josemaría.
Singolarmente la sua mitezza era compatibile con una capacità di lavoro inesauribile. Ricordo che proprio il 15 settembre del 1975, quando diventò per noi il Padre, fu circondato dall’affetto di tutti e accolse tutti con affettuosa cordialità. In quel periodo Joaquin Navarro Valls lavorava nella segreteria dell’Opera occupandosi dei rapporti con i mezzi di comunicazione. Eravamo insieme quando incontrammo il nuovo Padre, che fu affettuosissimo. Ad un certo punto dette delle indicazioni pratiche a Navarro con una tale lucidità ed efficacia che rimasi impressionato. Malgrado le emozioni e le distrazioni a cui era sottoposto, don Alvaro non perdeva la bussola e restava lucido ed efficiente.
Negli anni settanta lo incontrai diverse volte perché lavoravo nella Commissione Regionale italiana (l’organo di governo dell’Opus Dei per l’Italia) ma, fra tanti incontri, mi è rimasto impresso un piccolo episodio, quasi troppo piccolo, ma per me significativo. Avevo lasciato Milano (sede della Commissione), mi ero stabilito a Roma e attendevamo una visita importante nella residenza universitaria dell’EUR: mi pare che si trattasse del segretario di stato vaticano, il cardinal Agostino Casaroli. Tutto era ben preparato, ma all’improvviso arrivò la disposizione di cambiare l’ordine delle sedie in aula magna: non più in modo circolare ma orientate verso il palco. Ci fu un bel po’ di confusione e noi tutti davamo una mano. All’improvviso mi trovai di fronte don Alvaro che mi guardò affettuoso e disse: “ciao Pippo”. La sala era piena di persone che il Padre conosceva e io ero impegnato in una semplice manovalanza, in atteggiamento funzionale; non mi aspettavo un saluto personale che, proprio per questo, mi è rimasto impresso. In mezzo alla confusione il Padre manteneva la serenità e vedeva persone, figli suoi che gli stavano a cuore uno per uno. Può sembrare un semplice episodio ma mi è rimasto nel cuore: vorrei che il Signore mi accogliesse un giorno in Paradiso dove trovare don Alvaro che mi dicesse: ciao Pippo!
Quando don Alvaro morì Giovanni Paolo II arrivò subito nella Chiesa Prelatizia dell’Opus Dei in Viale Bruno Buozzi a Roma, dove giaceva la salma. Si vedeva che era addolorato per la perdita di un caro amico, di un amico stimato, di un amico santo. Si trattenne a lungo in preghiera e noi pregavamo appassionatamente con lui, convinte che don Alvaro ci sorridesse dal cielo. Sono stati momenti indimenticabili, di famiglia.
Qualcuno ha fatto notare che don Alvaro è il primo ingegnere ad essere beatificato nella storia della Chiesa. E’ un fatto significativo proprio per l’obiettivo a cui don Alvaro si è tanto dedicato: far comprendere a tutti che il Signore chiama ciascuno alla santità, qualsiasi mestiere faccia, spazzino o ministro. Ora diventa più chiaro che anche gli ingegneri possono andare in Paradiso, purché non siano noiosi (difetto della categoria) e siano spiritosi come i santi. Ma per me don Alvaro significa qualcosa di più: resta il modello della fedeltà. Il Signore ci dona alcune creature eccezionali che hanno grazie particolari, mistici, condottieri del bene, taumaturghi. Queste persone ci aprono strade nuove, spalancano orizzonti di santità e San Josemaría è uno di questi. Per i comuni fedeli non è così. A loro è richiesto solo di amare in modo straordinario restando persone ordinarie, normali. Don Alvaro per me è il capofila di questi fedeli, di quelli che non devono dire nulla di nuovo, persone a cui è richiesta una sola cosa: la fedeltà. Non a caso i cristiani si chiamano così: fedeli. Un nome che piaceva a San Josemaría e a don Alvaro: fedeli!

sabato 20 settembre 2014

La recensione di Costanza

Non paga di aver scritto un'affettuosa e divertente prefazione al libro, Costanza Miriano ha scritto nel suo blog questa recensione che dimostra che l'amicizia, come l'amore, rende ciechi o quasi...

Se, come diceva santa Bernadette, avere la fede è vedere Dio ovunque, Pippo Corigliano di fede ne ha a camionate. Ho la fortuna di avere a che fare con lui abbastanza spesso (è consulente a Rai Vaticano, dove lavoro anche io), e ogni volta che parliamo di qualcosa che è successo nel mondo, anche di qualcosa che mi ha fatto arrabbiare, Pippo con un triplo axel, un quadruplo carpiato, un repentino ubriacante rovesciamento di prospettiva, riesce a trovare il disegno del bene anche nel groviglio più fitto del male. Qualcosa per cui gioire, il lato positivo, la possibilità della soluzione. Insomma, l’impronta di Dio nel mondo.
Non parliamo, invece, di quello che succede se oggetto della conversazione è una persona. Pippo ha un’abilità quasi soprannaturale di vedere il lato bello di chiunque, di scusare l’imperdonabile, di capire l’incomprensibile. E poi c’è la famosa risata pippesca. Una versione di risata che sfodera puntualmente quando c’è qualcosa che si dovrebbe  proprio criticare, e non si riesce a salvare niente, neanche con tutta la fantasia. Allora, in quel caso, pur di non dire una parola negativa su nessuno Pippo ride, e dice “be’, a un certo momento… capisco…” e vari intercalare generici che servono a cambiare argomento e a virare velocemente su argomenti neutri quali le mezze stagioni e il disgelo del Polo.
Questo sguardo sorridente sul mondo, quest’occhio benevolo sulle persone, questa fede incrollabile nel fatto che siamo figli di Dio, stirpe regale, Pippo li traduce ogni settimana in una Cartolina, una breve riflessione (si sa, gli uomini, soprattutto se ingegneri, hanno questo mirabile dono della sintesi, a me sconosciuto) per scovare nella realtà le ragioni della speranza.
E adesso di queste cartoline è uscita una raccolta. Ho già svelato le ragioni del mio conflitto di interessi – sono amica di Pippo – ma lo stesso, consapevole che verrò ingiustamente sospettata di insider trading, aggiotaggio e anche un po’ di abigeato (non c’entra, ma erano anni che aspettavo di usare questa parola) consiglio a tutti i miei amici di comprare questo Cartoline dal Paradiso, appena uscito in libreria per edizioni Ares e Tempi, anche perché, fatto non trascurabile, le cartoline sono brevissime, e durano ciascuna giusto il tempo di un rosso al semaforo, di un’attesa al banco gastronomia (due numeretti, a occhio e croce), di una breve sosta in bagno (che come si sa almeno per noi mamme è uno dei momenti culturali più alti della giornata, da quando si riacquista il privilegio di poter chiudere a chiave la porta). Un modo agevole di portarsi con sé un sorriso in borsa, senza assumere sostanze stupefacenti.
Purtroppo questo libro ha un fastidioso effetto collaterale. Ti fa venire voglia di fare le cose bene, di essere una persona migliore, perché di fronte alla tenerezza di Dio descritta questa è la prima reazione. Ti viene da cercare di essere migliore, e io adesso non ne avrei tanta voglia. Ho troppe cose da fare e vorrei prendere la scorciatoia, farle male, vivacchiare, imboscarmi, ma se si leggono le cartoline non si riesce più tanto.
Infine c’è da dire una cosa. In questo libro vengono dette cose durissime e coraggiose sulla natura del potere, sul degrado dell’Occidente, sui cristiani tiepidi, sulla manipolazione culturale, sulla legislazione italiana e sugli scenari mondiali. Cose che sui giornaloni non si leggono. Eppure vengono dette col sorriso dell’esperto portavoce, con questo tono partenopeo sempre elegante, con questa calma da ingegnere padrone della situazione… insomma, anche la sgridata uno, così, se la prende volentieri.

Papa Francesco spinge a pregare

 
Il Papa segue una doppia linea formativa nei confronti dei fedeli: da una parte li abitua ad una visione internazionale e a rendersi conto che esistono lobby che influiscono sui governi e sulle guerre in corso (vedi le parole del Pontefice a Redipuglia), d’altra parte il Papa cura la vita interiore delle persone svolgendo una vera e propria direzione spirituale. All’Angelus di fine agosto ha ripetuto il consiglio: il Vangelo, l’Eucarestia e la Preghiera. Tre momenti essenziali nella vita dei cristiani. Grazie al Vangelo si diventa amici di Gesù. Il Papa consiglia di leggerlo ogni giorno, ciclicamente. Il Vangelo è un nutrimento sempre necessario e sempre nuovo. Non stanca mai. L’Eucarestia è il sacramento principe che consente a Gesù e al suo Spirito di prendere possesso della nostra anima riottosa e trasformarla. La preghiera è il mezzo meno conosciuo per attivare la nostra intimità con Dio. A parte le preghiere vocali – Pater, Ave e Gloria – più conosciute, il cristiano d’oggi è poco formato alla preghiera. Non c’è nella mentalità dominante l’idea che la preghiera serve sempre, non solo nei casi disperati. Il Papa ci aiuta convocandoci in momenti particolari a veglie di preghiera, molti gruppi di preghiera si stanno muovendo in vista del prossimo Sinodo sulla famiglia. Ma devo capire che senza un tempo fisso dedicato alla preghiera non potrò avviarmi ad un cammino di santità. Diceva Santa Teresa che un quarto d’ora d’orazione al giorno basta per salvarsi. Mezz’ora forse è meglio…

mercoledì 17 settembre 2014

Qualcosa è cambiato fra Occidente e Oriente

 
Quando ero bambino tutto ciò che era americano era buono. Un asciugamani, un utensile, un’automobile, un frigorifero, i film, i jeans, il boogie woogie, tanto che Renzo Arbore ha composto una canzone: “Perché nun ce ne jamm’in America?”, in cui decanta gli hot dogs, gli sceriffi e i juke-box. Da ragazzo ho appreso che c’è stato un piano Marshall che ha aiutato l’Italia a rialzarsi e che le elezioni del ’48  (che salvarono l’Italia dall’egemonia sovietica) furono merito di una mobilitazione generale ma furono anche “benedette” dalla potenza americana. Avevo sei anni allora e ricordo ancora l’immagine spaventosa di Stalin con la minaccia: “Ha da venì baffone…”. Da una parte c’era l’impero del bene, dall’altra quello del male. L’Occidente amico e rassicurante cominciò a cambiar volto con l’uccisione di Kennedy e poi nel ’68 con mode e modelli inquietanti: la fantasia al potere, i figli dei fiori, droga, liberazione sessuale, divorzio, aborto come conquista, esaltazione dell’omosessualità, eutanasia, utero in affitto e via profetando. Il tutto presentato come una marcia verso la felicità, mentre in realtà ci sono solo deserto e carcasse di morti. I cosacchi non hanno abbeverato i cavalli nelle fontane di Piazza San Pietro, la Russia è stata più volte consacrata alla Madonna dai Pontefici, e il presidente russo ha portato a Papa Francesco un’icona di Maria, baciandola lui per primo. Qualcosa è cambiato e chi ha fede non può ignorare tutto ciò. La Vergine ci guidi e indichi le strade giuste.


venerdì 5 settembre 2014

Descrizione di "CARTOLINE DAL PARADISO. OTTIMISTI SEMPRE, PREOCCUPATI MAI"



 Così l'editrice Ares presenta il libro:

"Pippo non è una persona come tutti gli altri, lui vive con i piedi per terra ma lo sguardo fisso verso il Cielo. D’altra parte lui lo ha detto: come san Filippo Neri, "preferisce il Paradiso".
A me succede di arrabbiarmi se le cose vanno storte, se qualcuno mi fa una prepotenza, se subisco un’ingiustizia. A Pippo no. Lui trova sempre qualcosa di cui gioire in tutto ciò che accade!"
(Dalla Prefazione di Costanza Miriano)

Tre anni, centocinquanta cartoline, attraverso cui l’autore commenta i fatti dell’attualità per invogliarci a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, nonostante la crisi, nonostante il governo, nonostante le alluvioni e i terremoti, nonostante tutto...
Senza pretesa di insegnare nulla, Corigliano sa fare breccia nei cuori e donare al lettore con un sorriso le ragioni profonde e per nulla scontate della sua speranza.
Il volume esce in collaborazione con il settimanale Tempi, sulle cui colonne le «cartoline» sono venute alla luce.

L'autore
Pippo Corigliano, autore di successo per Mondadori con la trilogia Preferisco il Paradiso, Un lavoro soprannaturale e Quando Dio è contento nel suo profilo Twitter si descrive così: "Un ingegnere prestato alla comunicazione. Gli piacciono san Josemaría, san Giovanni Paolo II, Joseph Ratzinger e Papa Francesco. Anche Napoli, i faraglioni e la pizza".

Per ordinare il libro con lo sconto cliccare su: http://www.libreriacoletti.it/libro/CARTOLINE-DAL-PARADISO-OTTIMISTI-SEMPRE-PREOCCUPATI-MAI/9788881556151

lunedì 1 settembre 2014

I missili dei cristiani

C’è un missile che arriva sempre al bersaglio ed è la preghiera. Un giornalista ha chiesto al Papa se ritenesse inutile l’incontro in Vaticano fra israeliani e palestinesi, visto il precipitare degli eventi. Il Papa ha risposto che anche tra il fumo delle bombe si intravede una porta che la preghiera aprirà. Mi sembra che abbia ragione. Duemila anni di storia c’insegnano che il cristianesimo sempre perseguitato non viene mai sconfitto; che problemi che sembrano insolubili si risolvono e si sciolgono come la neve al sole. Sono devoto a Santa Caterina da Siena che da buona toscana aveva il senso dell’umorismo. Lei stava il più possibile ritirata in una cella a casa sua e quando la carità la portava a girare per il mondo si faceva una cella interiore nel proprio animo. La Provvidenza la portò ad Avignone: i fiorentini la condussero perché risolvesse per loro una divergenza col Papa, lei non riuscì in questo intento ma invece convinse il Papa a tornare a Roma: un problema che allora sembrava insolubile. Il Papa, che la stimava, trovò il coraggio, affrontò molte difficoltà e tornò a Roma. Da allora il Santo Padre riprese a governare la Chiesa dalla cattedra di Pietro. Non spaventiamoci delle aggressioni e preghiamo per i martiri. Noi abbiamo i veri missili che vanno sparati col carburante della fede. Non stanchiamoci di pregare. Gesù non abbandona i suoi. Chiediamo di essere davvero suoi, non perché portiamo una casacca ma perché abbiamo fede in Lui e crediamo nell’arma della preghiera.