Un funerale si è trasformato in festa. Ricordo con nitidezza il 26 giugno del 1975 quando la notizia arrivò, alle 14: il Padre è morto. Ero a tavola con Cesare Cavalleri e, dopo un tempo di preghiera in cappella, lo accompagnai alla metropolitana di Piazza Amendola a Milano. C'era un sole splendente: un contrasto fra quella calda luce e il mio cuore stretto dal dolore. Avevo perso la guida paterna di San Josemaría Escrivá. Quella luce e quel calore ora sono in me perché il 26 giugno è la festa del Santo. Devo tanto a lui. La vita, il temperamento e l'educazione li devo ai miei genitori ma San Josemaría ha rivoltato la mia vita come un calzino. Mi ha insegnato a voler bene in modo reale, pratico, fino al dettaglio affettuoso, come faceva lui seguendo il comandamento "nuovo" di Gesù. Mi ha insegnato che non esiste il dovere ma l'amore, che vuol dire compiere fino alla fine il lavoro col cuore, perché è ciò che "devo" all'Amato. Mi ha convinto che sono realmente figlio di Dio in Gesù e mi ha consigliato di essere figlio piccolo, non più di 7 anni, perché dopo s'impara a dire le bugie. Mi ha insegnato a guardare gli altri con gli occhi di nostra madre, Maria: non più individui ma fratelli simpatici, anche quelli che si presentano come antipatici. Mi ha trasmesso un'allegria contagiosa che è l'odore dello Spirito Santo mentre la tristezza è l'esalazione del demonio. Mi ha confermato nell'amore appassionato a Maria e anche nella speranza della vita eterna. Diceva: "Dio non agisce come un cacciatore in attesa della più piccola negligenza della preda per colpirla. Dio è come un giardiniere che cura i fiori, li irriga, li protegge; li coglie soltanto quando sono più belli e rigogliosi. Dio prende con sé le anime quando sono mature”.
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