In questo periodo ognuno di noi è chiamato a praticare una particolare virtù che si potrebbe definire “l’arte della convivenza”. Tutti stiamo molto più tempo a contatto con i componenti del nostro nucleo familiare, accorgendoci sempre più dei loro difetti e abituandoci alle loro virtù, tanto da darle per scontate e invisibili.
Su questo tema non penso di essere un maestro ma ho conosciuto dei maestri e ne voglio accennare, a rischio di dire cose ovvie… Chiamare quest’attitudine “arte” già può essere fuorviante perché l’arte presuppone un impegno personale, e invece in questo caso si tratta di un’arte che sconfina col divino, che è l’arte del saper voler bene. Ho conosciuto tante persone che sono un modello in questo campo ma una in particolare mi ha trasmesso molto e ha inciso sostanzialmente nel mio atteggiamento verso gli altri. La prima volta che incontrai San Josemaría Escrivá avevo 19 anni ed ero ansioso di conoscere colui che tutti chiamavano “il Padre”. Rimasi sconcertato perché, pur essendo noi una trentina di persone, il Padre stabilì subito un clima di naturalezza, di famiglia, senza alcun aspetto cerimonioso o artificiale. Il Padre era un padre talmente contento di stare con i suoi figli da scherzare con un buon umore straripante e guardando ognuno come un tesoro inestimabile. Alla fine dell’incontro avevo le lacrime agli occhi ma non sapevo se erano di commozione davanti alla fede tangibile del Padre o per le risate incontenibili. Quell’incontro è restato come un punto fermo nella mia memoria e ha definito in me qual è l’atteggiamento di un cristiano rispetto alle persone che ha intorno. Per il Padre era evidente che ognuno di noi era un capolavoro di Dio, che avevamo doti che ci consentivano di fare qualsiasi cosa, ed eravamo meritevoli di tutto l’affetto di questo mondo (senza smancerie, va precisato). Io ero abituato all’atteggiamento napoletano naturalmente benevolo e divertito nel trattare gli altri ma qui era un’altra cosa, c’era la fede che vedeva “scorrere nelle nostre vene lo stesso sangue di Gesù”. E’ un’espressione che lo stesso Padre usò per spiegare quanto bene ci volesse. Siamo di fronte alle virtù teologali della fede e dell’amore e allora è chiaro che ci vuole l’aiuto di Dio e parlare di arte significa eventualmente aggiungere quel pizzico di originalità proprio di ciascuno, ma, sia chiaro, la forza proviene dall’aiuto di Dio.
Siamo entrati in un clima soprannaturale ma è bene chiarire che noi non siamo buoni (come Gesù stesso precisò includendo se stesso) ma è il Signore che ci aiuta ad essere buoni, perciò è necessario partire da qui.
Certo ci sono persone simpatiche che per carattere ti rendono la vita gradevole senza mettere in ballo la fede e l’amore, ma è chiaro che c’è un limite. Se non c’è l’amore incondizionato si resta sempre in una zona limitata e circoscritta. I santi lo testimoniano: erano uomini di Dio che agivano per conto di Dio, mai dei semplici operatori sociali.
Ora che è chiaro con quale amore dobbiamo guardare gli altri, osserverei che non possiamo amare una persona se non ne abbiamo stima. Se la convivenza diventa difficile (può trattarsi della moglie, di un genitore, di un fratello, ecc…) conviene fermarsi a considerare le sue virtù, rendendosi conto che, se sta lì, vuol dire che merita la mia considerazione per tanti motivi. E’ un punto importante. Non devo disprezzare nessuno ma vederne le qualità. San Josemaría diceva scherzando che gli estranei considerano uno sporcaccione il bambino che si mette le dita nel naso, mentre sua madre pensa: diventerà un ricercatore… Ognuno ha la sua personalità e condizionamenti: lo sguardo d’insieme su di lui (o lei) mi aiuta ad accettarlo così com’è. Accettare, accogliere, questo è il punto. Per correggere c’è tempo…
Per essere sicuri che il rapporto con una persona sia buono, oltre alle considerazioni teologiche, un test è significativo. Rido con quella persona? Scherzo con lei? Il rapporto è disteso? O bisogna puntualizzare ogni cosa, complicando inutilmente il rapporto?
Naturalmente da parte mia devo essere sereno e, possibilmente di buon umore, anche se la mattina, da solo, ho pianto pensando che non ce la faccio più ad andare avanti. La serenità e l’accoglienza dipendono da me e ci devono essere, altrimenti tutto è inutile. Più che tante doti, la serenità è il contesto indispensabile con cui mi rapporto con gli altri. Saper volare alto sopra le asperità della convivenza senza impigliarmi nelle cime degli alberi.. Non a caso si dice “sorvolare”. Perciò, oltre alla fede e l’amore di fondo, la gerarchia delle virtù prevede: serenità e stima.
Mi sembrano ridicole queste regolette sovrapposte ma è necessario ripeterle perché a volte i rapporti umani si deteriorano mentre si trascurano queste fondamentali regole della buona convivenza.
Valorizzare gli altri. Assieme alla stima va l’incoraggiamento a compiere grandi piccole imprese: tentare un concorso, intraprendere un itinerario professionale impegnativo o semplicemente migliorare in qualche virtù. Ricordo ancora la voce di san Josemaría quando dice in spagnolo: “tú que tienes un corazón grande, una cabeza imponente”. Tu che hai un grande cuore, un’intelligenza eccezionale…
Saper festeggiare. L’impegno sì, ma la festa fa parte delle esigenze dell’animo umano. Festeggiare qualcuno è un modo solido per dimostrare che ci vogliamo bene.
Essere servizievoli. Non ci sono compiti indegni per noi. Dobbiamo essere pronti a lavare per terra, andare a fare commissioni, scendere in farmacia.
Quando qualcuno è malato deve sentire il calore della comprensione. Il malato ha bisogno di essere curato ma anche capito, senza capricci o stranezze, ma va capito e fiancheggiato. Non si cura la malattia, si cura una persona..
Se abbiamo il dovere di correggere dobbiamo pensare che la correzione sarà efficace nella misura in cui la persona si sente amata. Con San Josemaría le correzioni venivano accolte con gioia perché era chiaro che ti voleva un bene dell’anima.
Ognuno di questi capitoletti equivarrebbe ad un trattato, ma la sintesi può servire…
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