Anni fa
lessi un libro di Simon Weil e rimasi impressionato per la chiarezza con cui auspicava
una spiritualità radicata nel lavoro. In una relazione per un convegno sul
significato del lavoro, un mio amico ha sintetizzato mirabilmente il pensiero
della filosofa ebrea, che ha lavorato in un altoforno, in una fabbrica di
automobili e in agricoltura per vivere realmente nel mondo vero dei lavoratori.
“La nostra epoca ha ... per
vocazione la costituzione di una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro....
capace di costituire il grado più elevato
di radicamento dell'uomo nell'universo”. Sembra di sentire le parole di un
teologo contemporaneo e non di una donna nata nel 1909 e morta nel 1943, a soli
trentaquattro anni. Sentiva su di sè il peso di una società oscillante tra
comunismo, nazismo e capitalismo selvaggio con una concezione alienante del
lavoro. Avvertiva il fascino esemplare della figura di Gesù, di cui ebbe visioni contemplative (una, consolante,
proprio nelle ore di lavoro), anche se fu battezzata da un'amica solo in punto
di morte. La Weil sostiene che è possibile la contemplazione nello svolgimento
del lavoro: “l'attenzione, nel suo grado più elevato, è la medesima cosa
della preghiera. Suppone la fede e l'amore. Occorre rimediare agli errori con
l'attenzione, e non con la volontà...”.
“Tutti siamo
gravati da peccati e da miserie. Quando ci imbattiamo in ciò che è totalmente
puro, Dio, le nostre miserie sono sciolte dall’amore, se l’amor proprio non lo
impedisce. La Chiesa possiede l’amor puro nell’eucarestia ma non viviamo sempre
nelle chiese. È necessario perciò che questa offerta del peccato e del male,
trasformati dall’amore, si possa effettuare anche nei luoghi della vita
quotidiana e del lavoro. Occorre trovare simboli che ci conducano a Dio”.
Attualissima questa pensatrice.
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