Il mio riavvicinamento alla fede, dopo la parentesi adolescenziale, avvenne grazie ai figli spirituali di San Josemaría Escrivá. Il loro messaggio spirituale aderiva alla mia condizione di studente e di giovane che viveva nelle circostanze abituali della vita. Quel messaggio traeva la sua forza dalle origini del Nuovo e Antico Testamento. La santificazione del lavoro e dell’amore umano risalivano ad Adamo, posto nel Paradiso Terrestre per lavorare, e al suo amore per la donna, Eva, manifestato in termini di gratitudine a Dio.
Lo slancio della fede proposto da San Josemaría prendeva a modello i primi cristiani che continuavano a vivere nelle abituali condizioni ma dediti alla preghiera e sensibili alle ispirazioni dello Spirito Santo; disposti a dare alla Chiesa tutti i loro beni; apostolici anche senza un esplicito mandato, come fecero Aquila e la moglie Priscilla con l’intellettuale Apollo.
Quei giovani mi parlavano di unità di vita, cioè di coerenza nelle molteplici situazioni. Mi parlavano di libertà responsabile nelle scelte professionali e politiche: una novità allora e anche adesso. Saper coniugare l’io e non il noi. Non sentirsi mai rappresentanti ufficiali dell’Opus Dei o della Chiesa ma dimostrare coi fatti e non coi distintivi lo spirito cristiano.
Tanta originalità mi piaceva. Proponevano uno stile di vita cristiana (che tiene conto del lavoro per sostenere la famiglia, dell’amore coniugale e così via) non mutuato dalle spiritualità dei benedettini, dei francescani, dei domenicani e altri religiosi il cui punto di partenza era la vita conventuale o monacale: una realtà stupenda in sé e per loro, ma che diventava una forzatura per il normale cristiano che vive una diversa condizione di vita.
Nella festa di San Josemaria che cade il 26 giugno ringrazierò Dio per questo dono spirituale, originale e realistico a un tempo.
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