domenica 26 novembre 2017

Si salvi chi vuole

Ho letto il nuovo libro di Costanza Miriano "Si salvi chi vuole". E' un libro comico, cioé che fa ridere. Non solo umoristico: in fondo l'umorismo non è altro che sorridere delle debolezze umane, contemplandole. Costanza non solo contempla le sue debolezze ma le presenta in modo così vivo e reale che una risata sorge spontanea. Una risata liberatoria perché siamo tutti Costanza, tutti abbiamo debolezze alcune delle quali rasentano la follia. L'originalità rispetto ad altri libri comici (non è un caso se i suoi libri precedenti siano stati collocati talvolta nella sezione umorismo nelle librerie) sta nel fatto che l'oggetto del ridere non è la società, la poltica, le differenze di nazionalità e così via, l'oggetto è nientemeno il rapporto personale di ognuno di noi con Dio, cioé il tema di fondo di ogni società e cultura, il terreno dove si gioca la nostra felicità personale. Costanza osa dove nessun altro ha osato: introdurre la risata nella teologia. Non certo per ridere di Dio ma per ridere sanamente delle nostre velleità, quelle che ci hanno afflitto da Adamo a noi: i tentativi di fare da sè, di essere come Dio. L'uomo, anche il cristiano, che pretende di essere buono fa ridere. Perciò il libro di Costanza è fondamentale, perché fa luce su chi siamo noi e su come consentire a Dio di entrare nelle nostre vite. Perché è vero che lo Spirito soffia dove vuole, ma noi le finestre almeno le dobbiamo aprire, se no il vento dello Spirito Santo non può entrare. Costanza enumera cinque finestre fondamentali: la Parola di Dio (il Vangelo o, per meglio dire, la Bibbia), la preghiera, la confessione, l'Eucarestia, il digiuno. Lo fa non portandosi come esempio di percorrenza di queste strade ma raccontandoci come non ci riesce. Ciò non ostante provarci consente a nostro Signore di portarci nel buio del Suo Amore. Nel buio perché noi non vediamo chiaro ma lo splendore arriva quando ci facciamo guidare dalla volontà di Dio, come un cieco che, a un tratto, apre gli occhi e scopre lo splendore dell'Amore. Ma la nostra condizione è quella del tennista, ogni giorno dobbiamo cominciare di nuovo il nostro game.

venerdì 17 novembre 2017

Cose da pazzi


"Ovunque il guardo giro/cose da pazzi vedo". E' un verso di Metastasio di mia invenzione. Non c'è situazione che non mi faccia dire: cose da pazzi. Non c'è famiglia in cui non si pensi: ma non potremmo essere una famiglia normale? senza quel pizzico di follia che mi rende infelice? Non ne parliamo degli ambienti di lavoro: scorrettezze, invidie, disagi derivanti unicamente dal cattivo genio umano. Nelle università, negli ospedali, nelle aziende... Sempre sorge il desiderio che le cose potrebbero andare meglio, che ci vorrebbe un po' di buon senso: non si sanno semplificare le cose e mirare ad un obbiettivo comune positivo. Invece no: sempre manca un pezzo. "Le cose dovrebbero andare come dovrebbero..." questo è il nostro presupposto sbagliato. Invece le cose non vanno mai come dovrebbero. Ogni tanto c'è qualcosa che va per il verso giusto ma subito capita qualcosa di storto. La verità è che io vorrei il paradiso in terra e invece no: il paradiso ci sarà nel Paradiso. E allora mi lascio andare? no! perché è nella condizione della creazione che manchi sempre qualcosa. Perfino gli apostoli, che avevano Gesù davanti, discutono su chi è il più grande fra loro. L'Europa è nata dal cristianesimo, dalle abbazie benedettine, eppure quante storture, eresie, guerre... Devo allora abbandonare il cristianesimo? Che sciocchezza! La Provvidenza mi indica la strada giusta e il Signore mi aiuta. Perfino San Paolo diceva che si trovava a fare ciò che non voleva e che era a disagio nel suo corpo (Romani 7): un grande apostolo. Cosa sarebbe stata l'Europa senza il cristianesimo? cosa sarebbe la civiltà nostra senza il Vangelo? allora vedo il bicchiere mezzo pieno e capisco che il Signore non mi concede la perfezione assoluta perché io comprenda che devo andare da Lui che è l'Unico Buono. Devo capire che ho bisogno della preghiera perché io non sono buono. Non mi devo meravigliare che gli altri mi sembrino piuttosto pazzi perché lo sono anch'io. Capisco finalmente perché Gesù diceva "Senza di me non potete fare nulla" (Gv 15,8): solo apparentemente posso fare cose ma senza di Lui sono cose che non mi portano da nessuna parte. Gesù pensaci tu.

lunedì 13 novembre 2017

La grazia


Simone Weil, la pensatrice ebrea che si è avvicinata progressivamente al cristianesimo, (1909-1943) si è chiesta come l'uomo può aprirsi nel miglior modo alla grazia divina.
Dio si ritira da noi dopo la creazione perché ci sia possibile amarlo: è questa la sua intuizione. Nel suo libro L'ombra e la grazia scrive: “è stata data all'uomo una divinità immaginaria [il proprio io], perché l'uomo potesse spogliarsene, come il Cristo ha fatto della sua divinità reale": è una bellissima considerazione che considera lo spogliamento di sè per amore come qualcosa di divino.
Riferendosi a Cristo, la Weil scrive: “Egli si è disfatto della sua divinità; noi dobbiamo farlo della nostra umanità: se il chicco di grano non muore... ”. Per la Weil, Dio ha rinunciato a essere tutto; noi dobbiamo rinunciare a essere qualcosa: il nostro io. “Dio mi permette di esistere fuori di sé (exitus). A me tocca rifiutare questa autorizzazione (reditus). La creazione è una ritirata di Dio dal mondo, che rinuncia al suo potere supremo, perché siamo noi ad amministrarlo, pur avendo la possibilità di farlo male”.
Con la creazione, Dio rinuncia a comandare. Ne segue che “l'esistenza del male in questo mondo, lungi dall'essere una prova contro l'esistenza di Dio, è la sua rivelazione”. Ora, “rinunciare all'esistenza dell'io significa fare il vuoto in noi, affinché Dio lo possa occupare. Tutti i peccati sono tentativi di colmare (altrimenti) il vuoto in noi”.
Il Padre lascia al figlio prodigo la libertà e il potere di fabbricarsi falsi idoli del suo io e della felicità: “l'uomo che si crede schiavo del piacere è in realtà succube dell'assoluto che vi attribuisce”. Tuttavia, il Padre aspetta che il figlio si svuoti di tutto ciò e torni: “l'uomo non ha bisogno di rinunciare a dominare la materia e le anime, perché non ha tale potere. Ma Dio gli ha conferito un'immagine di questo potere, come una divinità immaginaria, affinché -pur essendo creatura- possa anch'egli rinunciare alla sua divinità […]. Quando ci si riconosce come nulla, allora si trova il proprio posto nel tutto”.
Sono pensieri profondi che mi aiutano a capire la delicatezza di un Dio che mi lascia libero affinché io possa nell'umiltà aprirmi alla sua grazia.





sabato 4 novembre 2017

La bellezza


Quando Dostoevskij scrisse la famosa frase "la bellezza salverà il mondo", non si riferiva alla bellezza meramente estetica come la intendiamo oggi, ma alla bellezza della bontà. Così la frase acquista tutto il suo significato. Il mondo si salverà quando la bella bontà tornerà ad essere una mèta.
La bellezza si riferisce quasi sempre alla figura femminile e non è un caso. La Madonna è la bellezza per antonomasia, Beatrice è colei che salva Dante portandolo alla visione di Dio. La donna bella perché buona è colei che guida l'uomo al senso  vero dell'esistenza come Monica fece con Sant'Agostino.
La nostra epoca, ammalata di brutalità perché rifiuta l'ideale della bontà, ha bisogno di donne belle perché sante. La donna corrotta è simbolo della decadenza non solo di se stessa ma di un ambiente, di un'epoca intera. Perciò oggi c'è bisogno che le donne inseguano la bellezza vera e non quella delle icone della pubblicità. C'è qualcosa di stolto nella ricerca del seno perfetto, delle gambe senza cellulite e così via... Si intuisce che l'umanità ha bisogno che la donna aspiri alla bellezza vera, quella che deriva dalla bontà. Allora saprà condurre l'uomo alla realizzazione di se stesso e l'uomo saprà canalizzare la sua forza virile nel compimento di grandi imprese. Si dice che dietro a un grande uomo c'è una grande donna ed è vero anche e soprattutto nei santi. L'amore a Maria è la cifra della santità. Non solo San Bernardo ma ciascun santo ha avuto come guida Maria. E' lei la bellezza che salverà il mondo.

giovedì 2 novembre 2017

La spiritualità del lavoro: Simon Weil


Anni fa lessi un libro di Simon Weil e rimasi impressionato per la chiarezza con cui auspicava una spiritualità radicata nel lavoro. In una relazione per un convegno sul significato del lavoro, un mio amico ha sintetizzato mirabilmente il pensiero della filosofa ebrea, che ha lavorato in un altoforno, in una fabbrica di automobili e in agricoltura per vivere realmente nel mondo vero dei lavoratori. “La nostra epoca ha ... per vocazione la costituzione di una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro.... capace di costituire il grado più elevato di radicamento dell'uomo nell'universo”. Sembra di sentire le parole di un teologo contemporaneo e non di una donna nata nel 1909 e morta nel 1943, a soli trentaquattro anni. Sentiva su di sè il peso di una società oscillante tra comunismo, nazismo e capitalismo selvaggio con una concezione alienante del lavoro. Avvertiva il fascino esemplare della figura di Gesù, di cui ebbe visioni contemplative (una, consolante, proprio nelle ore di lavoro), anche se fu battezzata da un'amica solo in punto di morte. La Weil sostiene che è possibile la contemplazione nello svolgimento del lavoro: “l'attenzione, nel suo grado più elevato, è la medesima cosa della preghiera. Suppone la fede e l'amore. Occorre rimediare agli errori con l'attenzione, e non con la volontà...”.
   “Tutti siamo gravati da peccati e da miserie. Quando ci imbattiamo in ciò che è totalmente puro, Dio, le nostre miserie sono sciolte dall’amore, se l’amor proprio non lo impedisce. La Chiesa possiede l’amor puro nell’eucarestia ma non viviamo sempre nelle chiese. È necessario perciò che questa offerta del peccato e del male, trasformati dall’amore, si possa effettuare anche nei luoghi della vita quotidiana e del lavoro. Occorre trovare simboli che ci conducano a Dio”.
Attualissima questa pensatrice.