NAPOLI: UN MODELLO DI AMORE PER IL LAVORO
L’amore c’entra con il lavoro. Quando l’Olivetti nel dopo guerra impiantò una fabbrica a Pozzuoli (Napoli), gli operai lavoravano a cottimo, cioè venivano pagati in base alla produzione. Le donne napoletane, che avevano figli a casa in condizioni disagiate, sbalordirono tutti perché riuscivano a produrre tre volte di più delle colleghe del Nord. La relazione tra cuore e lavoro, tra umanità ed efficienza, è sorprendente.
Napoli, per esempio, scoraggia tutti quelli che hanno una cultura sociologica ed economica moderna. È una città che nell’insieme non funziona e non dà speranze di funzionare. Persino Aldo Cazzullo, nel suo L’Italia s’è ri-desta (un noto libro sulla ripresa dell’Italia), quando arriva a Napoli le dedica un capitolo affettuoso ma sfiduciato. E invece, per capire Napoli, per capire la differenza fra Napoli e una qualsiasi città economicamente depressa, bisogna partire dall’animo dei napoletani. Bisogna capire come pensano, qual è la loro affettività, come intendono la vita, come percepiscono l’arte, come cantano. e qui si apre un mondo. Si potrebbe ricordare che la Napoli dei Borboni, malgrado la leggenda nera creatale attorno, era una città fiorente dove le arti, l’industria, l’istruzione, la religiosità prosperavano grazie a una grande tradizione.
Napoli era nel Seicento, con 400.000 abitanti, più popolosa di Londra e di Parigi, mentre Roma arrivava a stento a 100.000 abitanti. Sant’Alfonso de’ Liguori, protagonista del Settecento napoletano, esprimeva bene le eccellenze di Napoli nella musica (fra l’altro ha composto Tu scendi dalle stelle e altri canti popolari), nella pittura, nella cultura: è stato l’ultimo Dottore della Chiesa nel senso classico, riformatore della teologia morale. Tutto questo si è spento con la fine dell’autonomia: una vicenda che non si può approfondire in questa sede. È stata tolta la speranza a una città popolosa le cui attuali condizioni di vita non consentono una ripresa socioeconomica. Napoli può contare quasi unicamente sulle risorse interiori derivanti dalla sua cultura, e perciò è interessante. Chi va a Napoli parte con la paura di essere scippato, ma torna col desiderio di coltivare amicizie con napoletani o di trovare un marito o una moglie partenopei. Prova ne sia che, in tutta Italia, quando in un ambiente c’è un napoletano si respira aria di simpatia, di libertà, di umorismo. E questo che c’entra con il lavoro? C’entra. Perché chi concepisce il lavoro umano come la prestazione di una macchina o unicamente come mezzo per ottenere soldi e incarichi (in altre parole: chi è figlio della cultura dominante) ha una concezione di vita e di lavoro riduttiva. Il lavoro umano o è umano o è schiavitù interiore. Perciò è utile lo shock di una visita a Napoli, perché lì si capisce che l’uomo dipende non solo dalle condizioni economiche ma anche e soprattutto dalle risorse interiori.
Nei miei vent’anni, con alcuni amici avevamo organizzato un doposcuola per i ragazzi delle scuole medie del quartiere popolare di forcella. Molte famiglie erano in condizioni disagiate. Ricordo, fra l’altro, la sorpresa nel trovare tanta allegria in una famiglia con sei figli che viveva in una sola stanza. Per parlare di un’esistenza felice e della santificazione del lavoro, occorre partire dal cuore dell’uomo non dal suo reddito. La situazione di Napoli è, da questo punto di vista, un caso limite che fa riflettere.
Napoli, per esempio, scoraggia tutti quelli che hanno una cultura sociologica ed economica moderna. È una città che nell’insieme non funziona e non dà speranze di funzionare. Persino Aldo Cazzullo, nel suo L’Italia s’è ri-desta (un noto libro sulla ripresa dell’Italia), quando arriva a Napoli le dedica un capitolo affettuoso ma sfiduciato. E invece, per capire Napoli, per capire la differenza fra Napoli e una qualsiasi città economicamente depressa, bisogna partire dall’animo dei napoletani. Bisogna capire come pensano, qual è la loro affettività, come intendono la vita, come percepiscono l’arte, come cantano. e qui si apre un mondo. Si potrebbe ricordare che la Napoli dei Borboni, malgrado la leggenda nera creatale attorno, era una città fiorente dove le arti, l’industria, l’istruzione, la religiosità prosperavano grazie a una grande tradizione.
Napoli era nel Seicento, con 400.000 abitanti, più popolosa di Londra e di Parigi, mentre Roma arrivava a stento a 100.000 abitanti. Sant’Alfonso de’ Liguori, protagonista del Settecento napoletano, esprimeva bene le eccellenze di Napoli nella musica (fra l’altro ha composto Tu scendi dalle stelle e altri canti popolari), nella pittura, nella cultura: è stato l’ultimo Dottore della Chiesa nel senso classico, riformatore della teologia morale. Tutto questo si è spento con la fine dell’autonomia: una vicenda che non si può approfondire in questa sede. È stata tolta la speranza a una città popolosa le cui attuali condizioni di vita non consentono una ripresa socioeconomica. Napoli può contare quasi unicamente sulle risorse interiori derivanti dalla sua cultura, e perciò è interessante. Chi va a Napoli parte con la paura di essere scippato, ma torna col desiderio di coltivare amicizie con napoletani o di trovare un marito o una moglie partenopei. Prova ne sia che, in tutta Italia, quando in un ambiente c’è un napoletano si respira aria di simpatia, di libertà, di umorismo. E questo che c’entra con il lavoro? C’entra. Perché chi concepisce il lavoro umano come la prestazione di una macchina o unicamente come mezzo per ottenere soldi e incarichi (in altre parole: chi è figlio della cultura dominante) ha una concezione di vita e di lavoro riduttiva. Il lavoro umano o è umano o è schiavitù interiore. Perciò è utile lo shock di una visita a Napoli, perché lì si capisce che l’uomo dipende non solo dalle condizioni economiche ma anche e soprattutto dalle risorse interiori.
Nei miei vent’anni, con alcuni amici avevamo organizzato un doposcuola per i ragazzi delle scuole medie del quartiere popolare di forcella. Molte famiglie erano in condizioni disagiate. Ricordo, fra l’altro, la sorpresa nel trovare tanta allegria in una famiglia con sei figli che viveva in una sola stanza. Per parlare di un’esistenza felice e della santificazione del lavoro, occorre partire dal cuore dell’uomo non dal suo reddito. La situazione di Napoli è, da questo punto di vista, un caso limite che fa riflettere.
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