A qualcuno sarà capitato di leggere biografie sul proprio
padre. Penso che avrà vissuto la sensazione che io provo ora: quante notizie
belle e giuste! Ma per me, mio padre è mio padre. Perciò sono lieto che ci
siano tanti libri su don Alvaro del Portillo, ma a me piace ricordarlo come
l’ho conosciuto, prima da fratello maggiore e poi da padre.
Nei nostri incontri con San Josemaría don Alvaro (accento
sulla prima “a”, alla spagnola)
era sempre presente.
Soprattutto nelle prime riunioni col fondatore dell’Opus Dei eravamo
emozionati perché conoscevamo finalmente l’autore del libro di pensieri
“Cammino”, colui che era chiamato con affetto “Padre” da chi ci aveva
preceduto: San Josemaría metteva subito tutti a proprio agio con il suo
buonumore, anche se la sua fede, così tangibile e fondante, era commovente.
Quando il Padre entrava nella stanza lo seguiva un sacerdote sorridente che si
metteva nel fondo della sala, dietro a tutti. Se il Padre doveva ricordare
qualcosa: una frase o un nome, diceva con voce più alta: “Alvaro!” e la
risposta arrivava immediata. Mai c’era un’esitazione o un errore. Così
cominciammo ad affezionarci a questa figura dal sorriso buono che era come
l’ombra del Padre. Un’ombra molto efficace perché gran parte del peso della
costruzione dell’edificio giuridico e anche dell’edificio materiale della casa
centrale della Prelatura cadevano sulle sue spalle. Una volta don Alvaro si
ammalò e uno di noi disse a San Josemaría: “Padre è preoccupato?” e il Padre
rispose: “Figlio mio forse non ti rendi conto di quanto significa don Alvaro
per tutta l’Opera e per tutti voi…”.
Il suo carattere mite metteva a suo agio chiunque. San
Josemaría travolgeva l’interlocutore in un’onda di simpatia e di buonumore, e,
senza volerlo, metteva in imbarazzo coloro che non erano animati da rettitudine
d’intenzione che rimanevano spiazzati davanti ad un uomo di Dio che ragionava
in maniera soprannaturale. Viceversa gli uomini di fede e di preghiera
s’innamoravano di lui. Fra i cardinali entusiasti ricordo, ad esempio, Angelo
Dell’Acqua e Pietro Palazzini che erano apertamente convinti della santità di
San Josemaría, più di noi. Don Alvaro, da parte sua, riusciva a non mettere
nessuno in difficoltà, non spaventava nessuno: cosa singolare perché la vita mi
ha insegnato che la santità spaventa: non si spiega altrimenti la fiera
opposizione che tutti i santi hanno trovato nel loro percorso. Si potrebbe dire
che San Josemaría ha portato il suo messaggio impetuoso sotto gli occhi di
tutti. Don Alvaro, dopo la morte del Santo, riuscì a condurre in porto
l’itinerario giuridico dell’Opera e a realizzare imprese che il Padre aveva
soltanto progettato. In realtà è impossibile distinguere l’operato dei due
perché la loro azione era così congiunta che era difficile dire cosa faceva
l’uno e cosa l’altro. Senza dubbio il Padre aveva ricevuto il carisma
fondazionale ma don Alvaro (che aveva 12 anni meno di lui) gli stette a fianco
in totale unità d’intenzioni e d’azione.
Quando, nel 1975 San Josemaría morì, malgrado il nostro
dolore, l’Opera non subì nessuno scossone anzi, ne sono testimone in Italia,
subì un’accelerazione morbida come quella dei treni ad alta velocità. Ci fu un
fiorire di vocazioni all’Opera come se ci sentissimo tutti più responsabili e
il primo di noi era don Alvaro, che da fratello maggiore passò ad essere il
Padre. Lui stesso raccontò, contento e sorridente, che una collaboratrice
domestica gli aveva scritto dicendo: “Non è morto il Padre, è morto don Alvaro,
perché per noi c’è sempre il Padre”.
Non è da credere che la sua semplicità fosse semplicioneria.
Aveva brillantemente ottenuto la laurea in ingegneria trasporti, che era molto
impegnativa in Spagna, mentre lavorava intensamente nelle attività dell’Opera.
Dopo la laurea lavorò per qualche tempo come ingegnere. Il Padre aveva voluto
che si laureasse anche in lettere e che percorresse per bene l’itinerario degli
studi ecclesiastici prima di diventare sacerdote nel 1944 con altri due fedeli
dell’Opera. Erano i primi tre sacerdoti dell’Opus Dei. Il Padre si affrettò a
confessarsi con lui e a chiedergli in ginocchio la benedizione.
Nel 1943, ancora laico, in piena guerra, era venuto a Roma
in aereo (un viaggio avventuroso) per illustrare a Pio XII l’Opus Dei. Conobbe
allora mons. Giambattista Montini che, apprezzando il messaggio di chiamata
universale alla santità dell’Opus Dei, pronunciò la famosa frase: “Siete venuti
con un secolo d’anticipo”. Una frase che servì a don Alvaro per indurre il
Fondatore a venire a Roma nel 1946 e stabilirsi definitivamente.
La sua unità e dedizione a San Josemaría era totale. In uno
degli incontri pubblici del Fondatore una ragazza intervenne dicendo: “Una mia
amica mi ha fatto osservare con quanto affetto seguono il Padre coloro che
stanno sempre con lui. Chissà quante volte hanno sentito le stesse cose eppure
sono attentissimi a tutto ciò che dice”. San Josemaría non lo dette a vedere,
ma si commosse, e rispose con impeto: “Ebbene sì ci vogliamo bene…”
Fin dai primi tempi romani don Alvaro ebbe incarichi nei
vari dicasteri della curia pontificia, dove era stimatissimo. Partecipò
attivamente ai lavori preparatori del Concilio, nel dopoconcilio e negli anni
successvi, fino al 1975 quando fu eletto all’unanimità successore di San
Josemaría.
Singolarmente la sua mitezza era compatibile con una
capacità di lavoro inesauribile. Ricordo che proprio il 15 settembre del 1975,
quando diventò per noi il Padre, fu circondato dall’affetto di tutti e accolse
tutti con affettuosa cordialità. In quel periodo Joaquin Navarro Valls lavorava
nella segreteria dell’Opera occupandosi dei rapporti con i mezzi di
comunicazione. Eravamo insieme quando incontrammo il nuovo Padre, che fu
affettuosissimo. Ad un certo punto dette delle indicazioni pratiche a Navarro
con una tale lucidità ed efficacia che rimasi impressionato. Malgrado le
emozioni e le distrazioni a cui era sottoposto, don Alvaro non perdeva la
bussola e restava lucido ed efficiente.
Negli anni settanta lo incontrai diverse volte perché
lavoravo nella Commissione Regionale italiana (l’organo di governo dell’Opus
Dei per l’Italia) ma, fra tanti incontri, mi è rimasto impresso un piccolo
episodio, quasi troppo piccolo, ma per me significativo. Avevo lasciato Milano
(sede della Commissione), mi ero stabilito a Roma e attendevamo una visita
importante nella residenza universitaria dell’EUR: mi pare che si trattasse del
segretario di stato vaticano, il cardinal Agostino Casaroli. Tutto era ben
preparato, ma all’improvviso arrivò la disposizione di cambiare l’ordine delle
sedie in aula magna: non più in modo circolare ma orientate verso il palco. Ci
fu un bel po’ di confusione e noi tutti davamo una mano. All’improvviso mi
trovai di fronte don Alvaro che mi guardò affettuoso e disse: “ciao Pippo”. La
sala era piena di persone che il Padre conosceva e io ero impegnato in una
semplice manovalanza, in atteggiamento funzionale; non mi aspettavo un saluto
personale che, proprio per questo, mi è rimasto impresso. In mezzo alla
confusione il Padre manteneva la serenità e vedeva persone, figli suoi che gli
stavano a cuore uno per uno. Può sembrare un semplice episodio ma mi è rimasto
nel cuore: vorrei che il Signore mi accogliesse un giorno in Paradiso dove
trovare don Alvaro che mi dicesse: ciao Pippo!
Quando don Alvaro morì Giovanni Paolo II arrivò subito nella
Chiesa Prelatizia dell’Opus Dei in Viale Bruno Buozzi a Roma, dove giaceva la
salma. Si vedeva che era addolorato per la perdita di un caro amico, di un
amico stimato, di un amico santo. Si trattenne a lungo in preghiera e noi
pregavamo appassionatamente con lui, convinte che don Alvaro ci sorridesse dal
cielo. Sono stati momenti indimenticabili, di famiglia.
Qualcuno ha fatto notare che don Alvaro è il primo ingegnere
ad essere beatificato nella storia della Chiesa. E’ un fatto significativo
proprio per l’obiettivo a cui don Alvaro si è tanto dedicato: far comprendere a
tutti che il Signore chiama ciascuno alla santità, qualsiasi mestiere faccia,
spazzino o ministro. Ora diventa più chiaro che anche gli ingegneri possono
andare in Paradiso, purché non siano noiosi (difetto della categoria) e siano
spiritosi come i santi. Ma per me don Alvaro significa qualcosa di più: resta
il modello della fedeltà. Il Signore ci dona alcune creature eccezionali che
hanno grazie particolari, mistici, condottieri del bene, taumaturghi. Queste
persone ci aprono strade nuove, spalancano orizzonti di santità e San Josemaría
è uno di questi. Per i comuni fedeli non è così. A loro è richiesto solo di
amare in modo straordinario restando persone ordinarie, normali. Don Alvaro per
me è il capofila di questi fedeli, di quelli che non devono dire nulla di
nuovo, persone a cui è richiesta una sola cosa: la fedeltà. Non a caso i
cristiani si chiamano così: fedeli. Un nome che piaceva a San Josemaría e a don
Alvaro: fedeli!
Per la verità non è il primo ingegnere santo (a prescindere dal fatto che nel calendario liturgico verrà classificato come vescovo). Nel 2004, infatti, Giovanni Paolo II beatificò Alberto Marvelli, giovane ingegnere meccanico, morto in un incidente stradale. Senza contare Piergiorgio Frassati, che morì poco prima di conseguire la laurea in ingegneria mineraria.
RispondiElimina